L'odore del tabacco

L'odore del tabacco

Mio padre ricamava la “pietra leccese”, poco più avanti abitava un signore che faceva l’ambulante, cofano aperto in tutte le “chiazze” a vendere mutande e merletti. Dall’altra parte della strada un prof. Di matematica, poi un fornaio, poi un pensionato.  Di fronte abitava un contadino, casa con giardino piena di alberi di frutta, una gabbia con una decina di galline e il soffitto pieno di “chiuppi” di tabacco appesi, per buona parte dell’anno. Era lì che mi piaceva stare, a respirare il profumo della terra, l’odore del tabacco. Ed era lì che mi trovavano, seduto per terra, spalle poggiate al muro,    un “mantile” sulle gambe e con davanti cesti riempiti con arte di foglie di tabacco.   E noi ad infilarlo facendo scorrere la foglia, attraverso la “cuceddra”, lungo un filo di spago che poi veniva  legato ad un “tiraletto” e messo al sole a seccare.
La prima parte dell’estate la passavo così, impegnato ad infilare tabacco. Le mani e i pantaloncini pieni di quell’unto denso delle foglie, che non c’era verso di togliere. Immerso in quell’odore di tabacco appena raccolto e in quella dura fatica che si faceva ogni giorno. All’inizio sembrava tutto difficile, dovevi stare attento a non pungerti, poi piano piano si acquisiva velocità e sicurezza. Ogni anno la stessa canzone, l’annata andava bene o male a seconda la temperatura  e il prezzo, ma l’unica sopravvivenza per tantissima gente era proprio quell’immensa distesa verde che nel mese di maggio si perdeva all’orizzonte. Chi non possedeva terreno, si spostava in altri posti, molti andavano nella provincia di Roma dove grandi proprietari lo concedevano in colonia. “Saverio”, uno dei tanti, 40 anni di tabacco in provincia di Roma prima che quell’appezzamento fosse attraversato da ponti e autostrade. Tornò che parlava con l’accento romano, proprio come un “romano de Roma”.  La vita andava avanti così, tra pantaloni rammendati e cappotti rivoltati.   
La sera ci trovavamo sotto uno dei pochi pali di luce che illuminavano le strade, si passava il tempo a chiacchierare, a parlare. Sin quando i nostri genitori usciti sull’uscio di casa o affacciati alla finestra ci chiamavano. E noi dopo il solito “uffa!!” salutavamo e tornavamo a casa. 
Se l’indomani ci fosse stato un filo di vento, avremmo provato a far volare la “cometa” appena finita che era parcheggiata sotto il letto ad asciugare. Bastava un foglio di carta, quella dei sacchi di cemento, e un po’ di farina per incollare. A volte volavano che era una bellezza, a volte dopo qualche metro si inchiodavano a terra.
Non so quante volte ho raccontato a mio figlio queste cose, arricchendole ogni volta di nuovi particolari. Ho perso il conto e forse lui la pazienza. Ma l’altra sera quando avevo appena iniziato, gli squilla il telefono. Finita la telefonata mi fa: pa’ mi racconti un’altra volta, devo uscire.    Avrei voluto raccontargli di quella bella “cometa” lanciata in cielo a più di un rotolo di spago, che volava allegramente tra le nuvole.                                                       
E quando quello spago già troppo annodato si spezzò. La vidi svolazzare libera in quel cielo azzurro d’agosto e poi cadere mentre io la inseguivo col naso in su per cercare di  recuperarla. Rimase impigliata nei cavi elettrici a 10 metri d’altezza ed io rimasi impigliato in tutta l’amarezza che c’è, per i giorni successivi. Forse l’avevo raccontato troppe volte, forse erano cose troppo lontane, o forse non ero riuscito a descrivere l’atmosfera di quei tempi, i suoi profumi, i suoi sapori.  Non avevo raccontato la gioia al passaggio del carretto del gelato o quando si andava a comprare un po’ di ghiaccio dall’alimentari più vicino. Non ero riuscito a descrivere la magia di quegli anni, o forse non si può descrivere. 
Di certo non si può dimenticare.