Per gentile concessione dell'Editore Mnamon pubblichiamo il primo capitolo del quarto romanzo di Marcello Costantini.
“non ti immischiare in cose appartenenti agli occhi facendole passare per gli orecchi” (Leonardo da Vinci, Milano, 1513)
Parte Prima
Dalla Seicento a nessuno e oltre
1. C’è sempre una linea che contorna tutto, persino l’orizzonte ne accetta docile le regole: una linea netta, ma fluida, la quale fa distinguere le cose opponendosi all’idea che l’esistente sia un tutt’uno indistinto e amorfo, quasi fosse un panettone immenso. Una linea dritta tanto che la geometria di cui l’uomo si fa vanto non potrebbe fare di meglio; oppure curva a rendere rotonda una mela o sinuose certe sporgenze di carne che risvegliano i sensi o anche attorcigliata su se stessa, a chiocciola, secondo meccanismi misteriosi. Una linea colorata e leggera come quella che delimita i petali dei fiori oppure aggrovigliata in un caos ordinato a delineare la forma di un fiocco di neve al microscopio, a volte stentata e irritante tanto da richiamare il procedere sghembo di una gazza spaventata che vola a zig-zag. Quante volte ho immaginato di sorvolare a mezz’altezza, proprio come una gazza, questa terra, la parte più a sud-est d’Italia, il tacco, come lo chiamano. Vedere dall’alto quella linea di sottile spuma che delimita la terra, separandola dal mare: mi appare nervosa, incerta, rugosa. Sembra quasi tracciata da una mano vecchia e tremolante, per il via vai delle onde e per l’incertezza del percorso, dubbiosa sul da farsi. Dapprima, pare sfumare decisa verso oriente quasi volesse unirsi ad una specie di madrepatria segreta, nascosta da quella parte, ma poi incontra un faro, massiccio, immacolato, e a quel punto si ritrae quasi pentendosi, deviando verso occidente mentre precipita a mezzogiorno come per gravità, arrivando da lì a poco a delineare sfinita una punta aguzza, detta della Ristola, che dall’alto pare conficcata in un mare pastoso, 8 a dirimere con fatica la diatriba perenne tra i due fratelli ne- mici, lo Ionio e l’Adriatico. E proprio lì sbattono fino a farsi male le acque miscelate e gassose dei due mari, infilandosi con rabbia in una grotta tenebrosa detta del diavolo, dalla cui bocca nei giorni di sciroccata esalano suoni e schiuma che l’orecchio e l’occhio non possono percepire senza perdersi nell’inquietudine, per non prestare poi fede a quelle leggende che dicono che punta Ristola è la porta dell’inferno. Da qui la linea nervosa si perde dall’altra parte verso tramontana, correndo lesta in un susseguirsi di sporgenze e rientranze, ove trovano spazio spiagge bianche di neve, scogliere di un nero lavico, torri di avvistamento, talora oramai immerse nel mare, grotte abitate dall’uomo preistorico, dune e giunchi sbattuti dai venti, secche affioranti, scogli, isole brulle coronate da scarsa vegetazione. Questa linea tremolante e nervosa, questo profilo incerto che pone fine all’infinito mare, racchiude dentro di sé una terra, delimita una penisola nella penisola, un luogo immenso, vagamente ondulato, una falsa pianura che sa di vento o di niente, ove l’orizzonte sfugge, in un groviglio di ulivi tempestosi, di alture, di masserie, di sassi a non finire, di paesi compatti, fatti da un intreccio confuso e tufaceo bianco-giallastro, al giorno d’oggi variegato verso la periferia da rivestimenti e brutture architettoniche di ogni sorta, spesso elevantisi in palazzine di 3-4 piani, retaggio di decenni in cui bisogno, freddo e umidità atavici aprivano le porte all’orrore cementizio. Di solito, nei sobborghi come il mio, c’è un castello baronale, magari non proprio in piazza, ma piuttosto decentrato, ove in illo tempore si comandava, si godeva, si abusava e poi nei secoli successivi, quelli del disfacimento feudale e dell’abbandono, si infilava tabacco e talora si moriva di rogo. Nella piazza 9 si affacciano la chiesa, il municipio, un bar, a volte la farmacia, a volte l’antico sedile. Attorno alla piazza si addossano i palazzotti della vecchia nobiltà, più o meno decaduta, che ostentano una certa ricercatezza architettonica, con fregi e stemmi, ampi portoni, balconi cesellati da mani aduse allo scalpello leggero, sculture raffiguranti guerrieri, leoni, cavalli contorti o talora elefanti. Tutt’attorno vicoli angusti e corti troppo strette ad accogliere il popolino, ove i raggi del sole per arrivare a toccare la strada devono scendere dritti a perpendicolo, rasenti le pareti bianche, che ne vengono ingiallite e riscaldate solo quando il martello dell’orologio va sbattendo una dozzina di rintocchi sofferti. La pietra lavorata docilmente dall’uomo si perde poi e svanisce prima nelle vie più recenti, quelle dritte dell’architettura televisiva, modesca e spesso affaristico-speculativa, poi negli orti che la delimitano, intersecati da viottoli cinti da muretti a secco. E al di là degli orti, le colture arboree, ulivi sparsi, i mandorli, i fichi, a cingere borghi e orti come mura naturali, come una barriera alla carestia e alla sventura, talora organizzate a terrazze che sfumano quasi di malavoglia, interrompendo quel paesaggio natalizio, nel piattume del seminativo a perdita d’occhio, poiché d’altronde se non c’è il grano e l’orzo ditemi voi di cosa si campa. Ma prima di distogliere lo sguardo, l’occhio si aggrappa alla corona sterminata degli ulivi, che cinge da ogni parte il seminativo e che da questa scarsa altura mi pare un mare agitato di argento verde e fluido, ove se t’avvicini riconosci gli infiniti monumenti allegorici, vivi, naturali, tutti contorti, a volte spaccati, plasmati in nodi e anfratti, o a volte del tutto svuotati all’interno, con spirali di legno che paiono di pietra umana, piegati dal vento e dai secoli, sorretti talora da pile di pezzi di tufo, organizzate dall’uomo per scongiurare la resa alla forza di gravità, 10 un aiuto che pare quasi una umiliazione, poiché non si è mai visto un ulivo stramazzare al suolo di suo. Piuttosto questi alberi che nessuno ha mai abbeverato, simboleggiano la forza della vita, vittoriosa sulla fame e le sventure, aggrappata più alla roccia che all’arsa e sparuta terra, fruttificante nonostante tutto e tutti, fino a fare traboccare di olive i trappeti, perché ne facciano il sacro unguento verde col quale nutrirsi, ungersi, sacramentarsi, portarlo in processione, dissertare sulla qualità, l’acidità, magnificandone gli attributi. Sulla sinistra, incastonato tra l’argento verde degli ulivi, si nota un largo quadrato verde scuro, quasi nero: è il bosco dei lecci, macchia inquieta e tenebrosa tra tanti colori tenui. Il mare da qui non si vede, con la sua linea nervosa, ma se sei sufficientemente alto, ti accorgi che l’armonia impressionista dei colori naturali è rotta da serpenti grigi di asfalto: le strade, talora assurte al rango di superstrade, con tanto di spartitraffico, ma in genere più modeste, strette, tutte curve, con scarsa segnaletica, fumanti di caldo. In una di queste strade, a quei tempi forse nemmeno asfaltata, procedeva con un rombo di affanno strozzato, seguita da una traiettoria ondulata di fumo, nel meriggio di un giorno d’estate sul finire egli anni cinquanta, una seicento verde chiaro, vettura di tutto rispetto per l’epoca.