L’immensità di un artista, che si fa mito e leggenda durando un’intera vita (la nostra), si vede dalla sua “perenne contemporaneità” e dalla classe che, in continua verifica di se stessa, permane nel tempo, al passo coi tempi. Le emozioni cambiano perché cambiano i cuori, non nella sostanza, non nei sentimenti, si badi bene, ma nell’origine e nell’attualità del vivere quotidiano che vi sta alla base.
L’umano “sentire” ed “esprimere” è frutto dell’influenza dell’epoca in cui si esiste. La musica di David Gilmour è il tempo che si vive tutto, perché senza tempo: dalla fine dei “sixties” ad oggi un’ opera d’arte dinamica che si è rinnovata costantemente “step by step” nel corso della sua e nostra esistenza. Quasi ottantenne, oggi, ci racconta, in forma assolutamente sincrona col presente, ma utilizzando un classico del passato, la bellezza dell’essere al femminile, il mistero e la magnificenza che c’è nell’oggetto del creato: Donna. È il caso di “The great gig in the sky” e del suo strepitosamente accattivante e incantevole riarrangiamento nel concerto di Roma 2024. Nel 1973 in “Dark side of the moon” l’originale idea, veramente strabiliante, incredibile per quell’epoca, del canto sensuale e al tempo stesso spiritual delle tre coriste di colore, voleva riaffermare il primato della donna nella genesi della vita e la forza della propria sessualità; pari, se non superiore, al quella virile dell’uomo, che si crede unico padrone dell’Umanità. Il tutto, in un periodo, gli anni settanta, in cui femminismo e woodstock generation rivendicavano e portavano a quel tipo di parità. Quindi, in quel “The great gig in the sky”, da figli dei fiori e minigonna, nel canto della donna, celestiale e irriverente, al tempo stesso, l’uomo è costretto ad inchinarsi; al fascino insostituibile e irrinunciabile del suo omologo al femminile, da cui viene decisamente annullato. La rivisitazione di Gilmour, di “The great gig in the sky”, in questo concerto, dopo 50 anni, è qualcosa di inimmaginabilmente bello e soave, per la grazia e l’eleganza che vengono, nella performance, ora riconosciute e riattribuite al “gentil sesso”, ormai affrancato da subalternità di genere e libero da stereotipi. È il tempo in cui mettere in campo l’estro, la competenza, l’intelligenza, il genio, l’indipendenza culturale e sociale delle donne. Lui dapprima presenta assieme alla figlia Romany (musicista di gran talento che con quel nome esordisce proprio a Roma!), le donne presenti sul palco del Circo Massimo: Louise Marshall, “the fabolous” (come lui stesso la definisce) pianista e cantante di colore e le sorelle Charley e Hattie Webb, “white vocalists” stupende, dalla voce stupenda. Poi, si mette “al loro sevizio”, il palco viene preparato per le quattro protagoniste: pianoforte a coda nero, candelabri eleganti, candele accese rendono l’atmosfera inusuale per il concerto di un ex Pink Floyd Ma è il momento di “The great gig in the sky” nella nuova versione, tutta affidata alle donne della “my lovely crew” dice David. Louise Marshall prende posto “prepotentemente” al pianoforte, le altre tre si dispongono di fronte a lei; David, seduto un po’ in basso, pronto ad accompagnare con la sua mitica lap steel guitar. Il suo “d’u ready?”, rivolto a loro, suona come una carezza e una benedizione; e parte nel cielo e dal cielo una musica che sembra giungere direttamente da Dio e tornare a Lui. Quei leggendari virtuosismi vocali femminili diventano eleganti e delicati armonie, un po’ blues, un po’ gospel, accompagnate dalla musica classica che viene fuori dal pianoforte della Marshall. Le tre muse blackskin della versione anni 70 lasciano il posto a tre angeli bianchi; e, mentre quelle ammutolivano e stimolavano i sensi per la potenza e il fascino della loro erotica voce, queste angeliche figure lasciano in ipnosi, col fiato sospeso per 10 minuti, ogni persona, lì presente; assente da qualsivoglia altro pensiero e dimensione. Bloccati senza misura del tempo. Al termine dell’esecuzione, gli applausi, nessuno riesce a fermare le sue mani, in un grazie collettivo che viene veramente dal cuore di ciascuno, singolarmente. Mai vista una cosa del genere in nessuno dei numerosissimi concerti a cui ho assistito in giro per il mondo e delle più importanti personalità della storia della musica di tutti i tempi Gli applausi vengono interrotti “d’autorità” da Gilmour che attacca, di proposito, col pezzo successivo. Credo che non immagini neanche lui cosa stava donando alla gente lì presente, a quelle 15 mila anime italiane, a quei boomers mangia spaghetti che infischiandosene del testo di “Time”, hanno trascorso i loro ultimi 50 anni “ognuno in fondo perso dietro ai c. suoi” a “drogarsi” della sola musica di “Time”, mai fermandosi un attimo a capirne e rifletterne il testo, il suo significato autentico e la verità che racconta; inesorabilmente. Ieri, forse qualcosa è però cambiato; nel volto di Gilmour maschera plasmata dal tempo, ogni astante si è rispecchiato con onore; nella sua voce, in difficoltà a tratti, ognuno ha sentito e accettato se stesso; nella dolcezza di quel “The great gig in the sky” il tempo perduto è stato ritrovato, rivissuto; almeno per una notte.