Simon Veil, il dolore rende liberi

Simon Veil, il dolore rende liberi

La scomparsa di Simon Veil ripropone la questione della memoria dell’olocausto e del dovere, direi perenne, di tenere l’attenzione sempre alta su quelle spinte nazionalistiche che, a  tutte le latitudini, hanno creato dei totalitarismi. L’orrore della Shoah non ha eguali, non solo per la violenza e la disumanità dell’azione ma soprattutto per la scelta ragionata di sterminare per ragioni religiose e di geopolitica, milioni di persone.
All’età di sedici anni Simon fu deportata  ad Auschwitz con i genitori, un fratello ed una sorella. Da quell’esperienza fece ritorno, fisicamente, solo lei  e la sorella. Il suo nome, nel campo, era 78561.
Simon Veil, nel corso della sua vita, ha trovato la forza di parlare all’umanità e di essere un esempio di impegno civile e politico, ricoprendo innumerevoli cariche pubbliche  da ministro in diverse legislature Francesi a primo Presidente del Parlamento Europeo.
E’ stata anche una paladina dei diritti civili, donna caparbia ed inflessibile nei principi.
Nella vita straordinaria di questa donna riconosco il valore della libertà come traguardo di consapevolezza dell’uomo difronte alla storia, come esempio di dignità difronte all’onda lunga del qualunquismo, come segno tangibile di una “giustizia per gli uomini” che ben ci scuote al pari della  “giustiza divina”, a volte invisibile.

Ripropongo, tratta dal Web, un’intervista di Agathe Logeart a Simon Veil., per LA REPUBBLICA
Il dovere della memoria è anche fermarsi a leggere.

Nell'aprile del 1945, Simone Veil e la sorella vengono liberate a Bergen-Belsen. Ritrovano la libertà, la Francia, e anche l'incomprensione di un paese indifferente al dramma degli ebrei.
Per lungo tempo, la voce degli ebrei tornati dai campi di sterminio non è stata ascoltata. Perché?
Questa indifferenza, per lo meno apparente, è cominciata ancora prima del nostro ritorno. Nell'aprile del 1945, gli inglesi hanno liberato il campo di Bergen-Belsen dove eravamo arrivate al termine delle "marce della morte", da Auschwitz, ma siamo rimaste sul posto diverse settimane. Il campo è stato bruciato coi lanciafiamme dagli inglesi, per ragioni sanitarie, e noi siamo state trasferite in una ex caserma delle Ss. Molte di noi sono morte dopo la liberazione del campo, per il tifo, per un'alimentazione inadeguata o per mancanza di cure. Penso che molte di queste donne avrebbero potuto essere salvate, ma non era una priorità. Fortunatamente, dei prigionieri di guerra francesi provenienti da uno stalag lì vicino, tra i quali c'era un medico, venuti a sapere che tra i deportati c'erano delle donne francesi, sono venuti a soccorrerci. Le autorità francesi, dal canto loro, hanno deciso di rimpatriarci solo un mese dopo.
Forse perché si voleva dare la priorità al rimpatrio dei prigionieri di guerra, che erano internati da cinque anni? O forse si trattava di una forma di quarantena, per via del tifo?
Non ne ho idea. Quello che so, è che mia sorella non è morta laggiù solo perché io ero là per occuparmi di lei. I prigionieri di guerra sono rientrati direttamente: noi ci abbiamo messo cinque giorni per tornare in Francia, ammassati dentro a dei camion. L'indifferenza delle autorità francesi era già allora assolutamente straordinaria. E poi siamo arrivati in Francia. Quello che avevano subito gli ebrei, lo sterminio della maggior parte di loro, non suscitava nessun interesse. L'altra mia sorella, invece, deportata a Ravensbrück in quanto membro della Resistenza, è stata festeggiata. Era un'eroina - cosa incontestabile - tutti si interessavano a lei, le facevano domande sulla Resistenza, su quello che era successo nel campo di concentramento.
Forse era un modo, da parte della gente, di appropriarsi della Resistenza?
Noi? Non valeva neanche la pena di provare a parlare: ci interrompevano subito! Cambiavano argomento. Certi, quando vedevano il tatuaggio che ho ancora sul braccio, dicevano: "Ah, ce ne sono ancora, di ebrei? Credevamo che fossero tutti morti". E per i nostri cari era troppo doloroso parlare di quelle cose. Noi raccontavamo delle cose spaventose, loro vedevano in che stato eravamo tornate: per loro, che ci amavano, era insopportabile. E lo è ancora oggi, peraltro, sessant'anni dopo. Una mia cognata è stata deportata anche lei, quando vogliamo parlarne ci vediamo da sole».
Esistevano quindi due tipi di deportazione? Una valorosa, quella dei partigiani, e l'altra quasi disonorevole, quella degli ebrei?
«È vero che c'era una grossa differenza. I partigiani si erano battuti contro i nazisti. Si erano assunti grossi rischi. Spesso erano stati torturati. Gli ebrei erano stati deportati per la sola ragione di essere nati ebrei. Questo atteggiamento nei loro confronti è durato a lungo. Negli anni Settanta, ho partecipato a un dibattito alla Sorbona sull'esistenza delle camere a gas, in risposta ai negazionisti. Mi avevano chiesto di fare un intervento. Lo storico che doveva dirigere il dibattito era reticente, ma la signora Ahrweiler, che aveva organizzato la manifestazione, insistette perché partecipassi. Al momento della redazione degli atti del dibattito, lo storico di cui sopra mi informò che il mio discorso non sarebbe figurato fra i contributi degli storici, ma solamente fra gli allegati. Stupefatta di un simile disprezzo, rifiutai. Nello stesso periodo, ci si interessava alle testimonianze e agli archivi dei carnefici, le Ss. Ma si rifiutava di interessarsi a quelli delle vittime, che non erano giudicate credibili».
I tempi sono cambiati?
Sì, ma la memoria a volte arriva molto in ritardo. La Romania e l'Albania hanno riconosciuto il genocidio solo poco tempo fa. Gli sloveni hanno chiesto al Museo di Auschwitz di poter apporre una targa commemorativa nella loro lingua. Dal momento della caduta del Muro di Berlino e dell'implosione dell'Unione Sovietica, in tutti quei paesi dell'Est, da cui provenivano la maggior parte delle vittime della Shoah, gli ebrei ritrovano un'identità che era stata soffocata. E la memoria della Shoah fa ormai parte di questa identità.
A che serve questa memoria? E che cosa significa 'dovere di memoria'?
Non mi piace molto questa espressione. In questo campo, il concetto di obbligo non ha cittadinanza. Ciascuno reagisce secondo i propri sentimenti o le proprie emozioni. La memoria è lì, si impone da sola, oppure no. Esiste - se non viene occultata - una memoria spontanea: è quella delle famiglie. Qualche anno fa, quando ero al Ministero della sanità, sono venuta a conoscenza di ricerche sul bassissimo tasso di natalità di alcuni paesi dell'Africa. La sola spiegazione che quelle ricerche offrivano, soltanto come ipotesi, era che le donne, possedendo la memoria della schiavitù, limitavano spontaneamente il numero delle nascite. La memoria è anche questo: qualcosa che torna non si sa come, perché è lì, nel profondo di sé. Altra cosa è il dovere di insegnare, di trasmettere. In questo caso sì, c'è un dovere.
Che significato ha per lei la frase "Mai più questo"?
"Mai più questo" è quello che dicevano i deportati. Avevamo molta paura di scomparire tutti e che non rimanesse nessun sopravvissuto per raccontare quella tragedia. Era necessario che qualcuno sopravvivesse per poter dire che cosa era successo e perché non avvenisse più una catastrofe simile. Oggi, a ogni incidente, o anche per semplici fatti di cronaca, si proclama "mai più questo", a ogni pié sospinto e senza alcuni discernimento. Il pericolo, più che il negazionismo, è comparare cose che non c¿entrano niente fra loro. La banalizzazione, in altre parole.
La memoria può impedire la riproduzione del crimine?
«In realtà no. L'esperienza lo ha dimostrato: in Cambogia come in Ruanda. Ciononostante, è necessario continuare a parlare, non tanto del lager, di quello che abbiamo vissuto, ma di quello che costituisce la specificità della Shoah: voglio parlare dello sterminio sistematico, scientifico, di tutti coloro che dovevano scomparire fin dal loro arrivo nel lager, perché erano troppo giovani, troppo anziani, perché non c'era più posto per loro, o semplicemente perché l'ideologia nazista aveva deciso che tutti gli ebrei dovevano essere eliminati. Sì, bisogna che questo si sappia. Ci sono ancora tante persone che non sanno. Ed è così difficile concepire che una cosa del genere sia potuta accadere in pieno XX secolo, in un paese tanto fiero della propria cultura.